La sensazione era quella di avere qualcosa di importante da dire, o meglio da fare, ma di non sapere come.
Il mondo scintillava attorno, ma dietro ai confini della sua bottega, oltre gli androni dei palazzi patrizi, e oltre le mura di quella città veneziana, oltre le curve di un'antica strada romana che si perdeva verso sogni di seta e dentro a scavi di altri mondi perduti, che rinascevano come fenici.
Andrea si scostò un poco dal capitello ionico, quasi completo, per saggiarne l'equilibrio.
Amava quella pietra bianco crema, così facile da lavorare che poteva usare persino gli attrezzi da legno.
La polvere chiara affumicava l'aria in volute lente d'estate, e nella penombra parevano quasi guardarlo quei busti ritrovati chissà dove, che da qualche vita lontana ora erano arrivati fino a lì.
Quel pomeriggio di ferragosto, a sedici anni, nella bottega dei Pedemuro, sotto quei portici che non a caso erano vicino a Porta Pusterla, in quell'angolo di mondo, era solo.
Qualsiasi luogo in quel momento della sua vita sarebbe andato bene, purché non fosse Padova.
Il solo pensiero ancora gli metteva i brividi: Padova per Andrea era mastro Bartolomeo Cavazza, da cui infine si era deciso a fuggire. Aveva trovato il coraggio, questo stava pensando Andrea in quel momento. Aveva trovato il coraggio. Perché a Padova aveva lasciato anche il padre Pietro, che di Bartolomeo era amico.
Doveva lasciarselo alle spalle, il suo passato. Esisteva ancora, d'altra parte, il passato? O esisteva solo nella sua mente. Esisteva il ricordo del passato. Esisteva una paura, che non aveva più ragion d'essere.
Andrea seguitava a rifinire l'abaco senza bisogno di pensarci.
Gli veniva naturale, come a tutti gli scalpellini con qualche anno d'esperienza. Oppure no?
I pensieri si avvolgevano nella sua mente come le volute della sua opera, complici la solitudine, l'afa, il silenzio, il pomeriggio immobile, e le troppe emozioni che lo abitavano.
Andrea era benvoluto dai due scultori che avevano fondato la bottega: a loro, cugini di sua madre, aveva affidato se stesso, e mai scelta era stata migliore.
Lo sapeva Andrea, perché era un ragazzo intelligente che sapeva leggere gli sguardi, e cogliere le piccole cose: sapeva che lo consideravano il più dotato, e ormai se ne stava facendo convinto lui stesso.
Quella naturalezza era qualcosa di più della pratica.
Lui e quella pietra si conoscevano bene, e sarebbero rimasti legati per la vita.
In qualche modo, lo sapeva. Avrebbe fatto sempre lo scalpellino? Lo scultore, forse.
Oppure, chi lo sa, magari, l'architetto...
Lo affascinava la composizione delle forme entro le geometrie.
Lo affascinava quello stile nuovo, che nello stato di Venezia ancora non si praticava, ma che si diceva fosse in gran voga a Roma, a Firenze, a Urbino, e a Ferrara, e nella vicina Mantova, e a Milano... quasi ovunque ormai, nelle corti d'Italia che contavano.
Lo affascinava l'antico. L'antico lo affascinava più di ogni altra cosa.
Un soffio prolungato liberava le palmette e l'echino, che Andrea accarezzò soddisfatto con un polpastrello.
Una frase gli era rimasta impressa, doveva essere stato il conte Girolamo Da Porto che era entrato in bottega per curiosare, prima di rincasare una sera, nel palazzo di famiglia, a due passi da loro, in contrà Porti. "La conoscenza che la geometria cerca è quella dell'eterno": era una citazione di Platone.
Andrea si era fermato immediatamente dietro gli scaffali di noce scura, aprendo occhi e bocca quel tanto da lasciare entrare quelle parole dritte nella sua memoria: le avrebbe scolpite lì, per non dimenticarle più, a fianco alle altre preziose gemme che fortunatamente passavano per quell'angolo di terra che gli sorrideva più di qualunque altro.
Il tempo si era fatto eterno, per quel pomeriggio. Eppure, si era fatto tardi.
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