Il giorno stava calando quando mi fermai sotto i portici incompleti della mia Basilica.
I ponteggi di legno, scuri di pece e nodosi, si arrampicavano come scheletri lungo la facciata, avvolgendo l’edificio in un reticolo che pareva sospeso nel tempo.
L’odore resinoso del legno umido si mescolava all’acre profumo dei metalli arroventati, portato dal vento dai laboratori d’oreficeria poco distanti.
Non ero solo.
Le ombre si allungavano attorno ai lavoranti che, sulle impalcature, sagomavano le ultime cornici di pietra della giornata. Nella penombra, qualche figura nota si muoveva a distanza: una conversazione a bassa voce, l’eco di passi sul selciato.
L’aria era densa di sussurri, come se troppe menti, troppi progetti stessero giungendo a compimento insieme, nel cuore della città.
Quel giorno, sotto i miei occhi stanchi, prendeva forma il Gioiello di Vicenza: sarà un ex voto alla Madonna di Monte Berico, quello che ora coinvolgeva mani, talenti e opinioni che trascendevano i confini delle nostre mura.
Francesco Albanese, ancora giovane ai miei occhi, accompagnava Matteo Priuli, dietro ai passi miei e del vescovo anziano, Niccolò Ridolfi. Avevo intravisto quanto meno i suoi consigli nei dettagli dell'opera in legno sottostante, in quelle superfici pronte ad accogliere l’argento che lo stava nobilitando.
Da Venezia era giunto il Vittoria.
Conoscevo Alessandro, avevamo già lavorato insieme, così come venivano a salutarlo in tanti tra i gentiluomini che ci circondavano. La sua reputazione lo precedeva anche nei commenti tra gli artigiani della Basilica e del Palazzo del Capitaniato, sull'altro fronte della piazza: per tutti era il magnifico scultore di ritratti implacabili, l'uomo di scarse parole e di gesti misurati. L’avevo scorto poco prima, sfiorare con le dita un pezzo d’argento cesellato ancora da montare, come a misurare la purezza del metallo e la pulizia del tratto.
Ma il suo sguardo non era rivolto solo all’oggetto. Aveva studiato, più che altro, gli uomini al lavoro. Non intervenne, non allora.
V'era un altro, giunto da più lontano, che non passava inosservato.
Hendrik, o almeno così si faceva chiamare, non parlava la nostra lingua se non per poche parole, ma si faceva ben capire a gesti. Per giacca e cappello l'avrei detto fiammingo...
Dalla cintura pendevano arnesi che sapevo non essere per l’argento, ma per la lavorazione sottile dell’oro. Doveva essere di passaggio per Vicenza in questi giorni, e si era avvicinato per osservare.
Quell'opera ci richiamava tutti con un magnetismo che andava ben oltre il dovere o la curiosità.
Sotto la pioggia, nel chiaroscuro dei portici, l’argento scintillava appena, intravisto tra le mani degli artigiani.
Un disco imponente, sì, ma ancora incompiuto.
Aveva la grazia e il peso di un dono destinato a durare nei secoli, qualcosa che poteva essere sollevato con due mani, eppure nato per dominare lo sguardo di un’intera città.
Gli orefici lavoravano in silenzio.
Non erano uomini noti per i loro nomi, ma per la precisione delle loro dita.
Avevo intravisto un certo Lodovico, mani scure di calamina e uno sguardo attento come quello dei cesellatori più anziani della Fraglia.
Un altro, con l'accento di Nanto, tracciava sul metallo linee sottilissime, quasi a memoria.
Non servivano parole tra noi, ma sapevo che anche Alessandro e Francesco notavano i dettagli. Non era il momento della forma, ma del significato. Ciò che sii stava creando non doveva solo essere bello. Doveva pesare, nell’anima della città.
Improvvisamente un rumore di metallo cadde tra i ponteggi.
Mi voltai, allarmato.
Nessuno pareva aver sentito, né notato nulla di insolito.
Eppure, per un attimo, ebbi l’impressione che qualcuno, al piano superiore, stesse osservando anche me.
Il ricordo della morte tornò a trovarmi, come sempre più spesso stava avvenendo.
Ero sempre insieme a Leonida e Orazio, i due figli che avevo perso cinque anni prima, e sapevo che tra non molto sarebbe toccato anche a me.
E' questione di un attimo - riflettei tornando questa volta ai diversi operai che avevo perso nei miei cantieri.
Una disattenzione, la sfortuna, il fato...
«Troppo buio per controllare il riflesso»
La voce del Vittoria, bassa. Era dietro di me, sfiorava con un dito l'argento. Un bagliore appena percepibile, quasi inquietante, lungo i bordi.
Ciò che era fuori di me, era anche dentro di me.
Seguitai nei miei pensieri: tutto, per tutti noi, attraverso tutti noi, sarebbe vissuto in eterno.
La nostra bellissima Vicenza era destinata a brillare come un talismano tra le pieghe della storia, grazie alle mani e alle idee di chi pensava e lavorava.
Le tavole di legno scricchiolavano a ogni colpo di martello, e il profumo acre del ferro battuto si mescolava a quello della calce ancora fresca. In quel reticolo di travi e corde, io, Andrea Palladio, osservavo il cuore pulsante della mia città.
Tutto era un segno. Una promessa. Un presagio.
Scopri di più su Palladio e la città dell'oro insieme a noi
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